Parola di Dio in San Paolo

LA POTENZA DELLA PAROLA DI DIO IN SAN PAOLO
Sopracolle (Annunziatina)

CHI È PAOLO?

L’Apostolo stesso si presenta così nelle Lettere autobiografiche e nei discorsi in sua difesa, pronunciati a Gerusalemme, dopo l’arresto, e a Cesarea.
« Io sono un Giudeo, nato a Tarso di Cilicia, ma cresciuto in questa città (Gerusalemme), formato alla scuola di Gamaliele nelle più rigide norme della Legge paterna, pieno di zelo per Dio » (At 22,3). Mettiamo insieme un altro testo, tratto dalla Lettera ai Filippesi, e avremo così l’uomo Paolo col suo glorioso passato di ebreo e più precisamente di rabbino e di fariseo: della tribù di Beniamino, ebreo da Ebrei, fariseo quanto alla Legge; quanto a zelo, persecutore della Chiesa; irreprensibile quanto alla giustizia che deriva dall’osservanza della Legge » (Fil 3,5-6).

Dopo circa vent’anni dal suo incontro con Gesù Cristo, Paolo è ancora orgoglioso del suo passato di giudeo autentico e ne ha ben ragione. Nato a Tarso, notevole centro culturale dell’antichità, ponte tra l’oriente e l’occidente, egli proviene da una pia famiglia ebrea di tradizione farisaica che gli dà, oltre al nome romano di Paolo, l’antico nome ebraico di Saul. È educato e istruito a Gerusalemme, alla scuola di uno dei più grandi rabbini del tempo, Gamaliele, e lui stesso diventa rabbino, cioè « teologo » diremmo noi oggi. In questo periodo, forse, seguendo l’esempio della famiglia e del suo maestro, si aggrega alla setta dei Farisei, uomini molto religiosi che osservavano la legge in maniera scrupolosa. Persone degne di stima e piene di «zelo» (parola che usa Paolo nei due testi sopra citati), ma troppo legalisti e che, alla fin fine, consideravano la salvezza frutto delle loro opere e dei loro sforzi.
Esteriormente irreprensibile e profondamente religioso nell’intimo, Paolo può dunque definirsi «giusto», applicando a sé la massima lode che si possa fare dal punto di vista biblico.
Questa situazione, ricca di valori e di privilegi ottenuti sia per nascita che per impegno personale, può essere per lui un tesoro da custodire gelosamente, ma Gesù lo ferma sulla via di Damasco, lo rende cieco e, con la sua rivelazione, distrugge tutto  ciò che riempie la sua vita di israelita, diciamola pure, integralista.

Così comprende che tutto quanto gli sembrava molto importante non conta nulla di fronte a Gesù. Confessa infatti nella stessa Lettera ai Filippesí, nei versetti successivi a quelli già citati: « Quello che poteva essere per me un guadagno, l’ho considerato una perdita a motivo di Cristo. Anzi, ormai tutto io reputo una perdita di fronte alla sublimità della conoscenza di Gesù Cristo, mio Signore, per il quale ho lasciato perdere tutte queste cose e le considero come spazzatura, al fine di guadagnare Cristo e di essere trovato in lui » (Fil 3, 7-9).
I suoi antichi privilegi non valgono niente, li stima anzi menzogna e rovina perché lo pongono in un atteggiamento sbagliato nei confronti di Dio; ora l’unico bene è la conoscenza del Cristo, la relazione personale con Lui, divenuto per sempre « il suo Signore ».
L’evento di Damasco è, quindi, l’avvenimento fondamentale della vita di Paolo, dividendola in un « prima » e in un « dopo ». Non è solo una conversione, anche se ne ha tutte le caratteristiche – è infatti un cambiamento di mentalità, nel senso in cui è usato questo termine nel Nuovo Testamento – ma è un qualcosa di più grande e di più profondo; è una rivelazione, una vera illuminazione.
stato « un vedere il Signore », un’apparizione del Risorto che lo pone sullo stesso piano dei Dodici (cf 1 Cor 9,1;15,8-9), una profonda illuminazione paragonabile alla creazione della luce all’inizio del mondo. Scrive infatti ai Corinzi: « E Dio che disse: Rifulga la luce dalle tenebre, rifulse nei nostri cuori, per far risplendere la conoscenza della gloria divina che rifulge sul volto di Cristo » (2Cor 4,6).
La Parola di Dio si rivela a lui, illumina la sua vita e la sua mente non trasmettendogli conoscenze nuove, ma dandogli una nuova visione delle cose.
L’ebreo Paolo, appassionato di Dio, scopre che ha una visione radicalmente distorta di Lui; non lo riconosce come Dio padre e creatore, autore e fonte di ogni bene, ma ne ha fatto un suo possesso. Si ritiene padrone ormai della verità e non più bisognoso di misericordia. E il giudeo, che attende il Messia, scopre che il Cristo è già venuto ed è quel Gesù morto crocifisso come un maledetto da Dio, secondo le parole del Deuteronomio (cf Dt 21,23). In quel momento Paolo intuisce che Egli è divenuto maledizione per noi (cf Gal 3,13), che la sua è una morte « per noi » e, più tardi, esclamerà con amore pieno di riconoscenza: « Egli mi amò e diede se stesso per me » (Gal 2,20).
La Persona di Gesù, che si rivela sulla via di Damasco, diventa così il centro della sua esistenza, il fulcro attorno a cui si organizzano la sua vita, il suo pensiero teologico e, ovviamente, la sua missione.
Come Paolo non era un teologo da tavolino prima della conversione, tanto meno lo sarà da cristiano. La sua teologia è la teologia di uno che è stato improvvisamente chiamato. E la chiamata, con la conseguente missione, la ricevette sempre a Damasco.
Nella Lettera ai Galati, lettera polemica e appassionata, perché l’uomo vi si rivela tutto intero, l’Apostolo parla in questi termini della sua elezio­ne: « Colui che mi scelse fin dal seno di mia madre e mi chiamò con la sua grazia, si compiacque di rivelare a me suo Figlio perché lo annunziassi in mezzo ai pagani » (Gal 1,15).
L’autore della rivelazione è Dio Padre, che è pure la fonte di ogni elezione, ma l’oggetto della rivelazione è « il Figlio suo Gesù Cristo » che ne diventa anche lo strumento o meglio il mediatore tra il Padre e gli uomini. Così la chiamata all’apostolato per Paolo non è venuta « per mezzo di uomo, ma per mezzo di Gesù Cristo e di Dio Padre » (Gal 1,1) direttamente.
È la missione di testimoniare e di annunciare quel Gesù che fino allora aveva violentemente perseguitato. Il Cardinale Martini così commenta questo fatto: « È sconvolgente per Paolo che le due cose avvengano insieme: nello stesso momento in cui Gesù gli fa capire: “Hai sbagliato tutto “, gli dice: ” Tutto ti affido, ti mando ” ».
Il persecutore, ormai per sempre « afferrato da Cristo Gesù » (Fil 3,12), ne diventa il suo messaggero, « araldo, apostolo e maestro » (2 Tm 1,11). II dovere missionario è divenuto per lui una necessità, essendo un incarico che gli è stato affidato (cf. 1Cor 9,16-17).

Infine possiamo chiederci chi è l’uomo Paolo di cui il Cristo si è impossessato. Se l’incontro di Da­masco ha capovolto la sua vita e il suo atteggiamento interiore, non ha cambiato l’uomo, ma « ha solo orientato verso una direzione opposta il suo innato temperamento fatto di intelligenza, di generosità, ardore e tenerezza » (R. Penna). Quest’uomo si rivela tutto intero nelle sue Lettere.
È una natura forte, una complessa personalità, sintesi di entusiasmo e di equilibrio, uomo intensamente emotivo, appassionato negli affetti e anche nell’opposizione. Per natura intollerante, la lezione più difficile che imparò dal suo Signore fu quella della tolleranza e della carità. Ma questa personalità dal giorno di Damasco, ha il suo centro di gravità fuori di se stessa, nell’amore totale e personale per « il Signore Gesù », come era solito chiamare la Persona divina che gli si era rivelata un giorno.

CHI È GESÚ PER PAOLO?

Il fariseo Paolo, che vive la Legge dell’autogiustificazione, scopre che tutto gli è stato donato per grazia e per misericordia e che tutto gli è stato dato per mezzo di Gesù Cristo. Gesù, che gli è apparso con potenza sulla via di Damasco « per costituirlo ministro e testimone » (cf At 26,16), è Colui per mezzo del quale Dio si manifesta e si rivela. A Damasco Paolo intuisce il mistero di Cristo che svela e ci introduce nel mistero trinitario di Dio.

GESÙ È IL VERBO DEL PADRE

Negli scritti paolini, Dio è frequentemente presentato come « il Padre del Signore nostro Gesù Cristo » (cf 2 Cor 1,3) con una formula che è esclusiva dell’Apostolo. Gesù è « il Figlio suo dilettissimo… generato prima di ogni creatura » (Col 1,13.15). Quindi è la stessa « gloria divina che rifulge sul volto di Cristo » (2 Cor 4,6).
Gesù è perciò l’eterno e preesistente Figlio di Dio. Questo appellativo di « figlio » mette in luce la relazione intima e del tutto particolare che Egli vive con Dio. Si tratta di un rapporto di profonda ed ineguagliabile intimità e di sostanziale uguaglianza. Per questo Gesù è « immagine del Dio invisibile » (Col 1,15) in quanto in Lui Dio si è rivelato e si è fatto conoscere.
È perciò il Verbo del Padre, la Parola, anche se Paolo non usa mai questo termine, esclusivo di Giovanni. Se a livello umano la parola è il mezzo più normale per esprimere il proprio pensiero e il proprio essere, la Parola di Dio è l’espressione del pensiero di Dio ed è la manifestazione e la comunicazione dell’amore e della vita divina. Quest’opera di rivelazione, cioè di autocomunicazione di Dio nel Figlio, è cominciata con la creazione.
« Tutte le cose sono state create per mezzo di luie in vista di lui », confessa l’inno della Lettera ai Colossesi, continuando « Egli è prima di tutte le cose e tutte sussistono in lui » (Col 1,16-17).
Gesù Cristo è il mediatore della creazione nella sua totalità, in quanto Dio ha tutto creato in Lui, tramite Lui e in vista di Lui, e la creazione continua ad avere vita per mezzo suo (cf Col 1,17Ef 1,3). Ma Gesù è il mediatore anche della seconda creazione: la redenzione; difatti l’inno già citato prosegue dicendo che « piacque a Dio… per mezzo di lui riconciliare a sé tutte le cose, rappacificando col sangue della sua croce, cioè per mezzo di lui, le cose che stanno sulla terra e quelle nei cieli » (Col 1,20).
Gesù è dunque il « Figlio di Dio » (Gal 2,20) nel quale e per il quale si compie l’opera divina. L’iniziativa è del Padre, che è il principio della vita divina e l’autore del progetto di salvezza concepito prima ancora della fondazione del mondo, con una iniziativa del tutto gratuita che Paolo esprime con la locuzione «piacque a Dio ». Il Figlio è pura Accoglienza del Padre e del suo amore. Egli, che si è fatto « Donazione e Dedizione » (H. Schlier), realizza in pienezza il progetto del Padre, perché tutti gli uomini divengano in Lui figli di Dio (cf Gal 1,4). Tutto questo avviene nello Spirito.
Il piano di salvezza del Padre, infatti, è realizzato per mezzo del Figlio nello Spirito Santo. Ogni bene è donato al mondo da Dio per mezzo del Verbo incarnato, Gesù Cristo, e nel suo Spirito. Questi è distinto dal Padre e dal Figlio, ma non è mai separato da essi in quanto è il loro legame personale di comunione.
Lo Spirito è, dunque, « lo Spirito di Dio » (Rm 8,14), ma è anche « lo Spirito di Cristo » (Rm 8,9) perché, donato dal Padre, accolto e donato dal Figlio, procede dall’uno e dall’altro ed è l’Amore stesso.
L’uscita da sé di Dio, cioè l’apertura dell’Amore trinitario, avviene sempre nello Spirito, sia nella creazione (cf Gn 1,3), sia all’inizio della reden­zione (cf Lc 1,35) che nel suo compimento (cf Rm 1,4). Egli è l’apertura della comunione divina a ciò che non è divino ed è colui per mezzo del quale è portata a compimento la comunicazione di Dio.
« Lo Spirito, si può dire, è la forza in base alla quale Gesù Cristo – e Dio in lui – si automanifestano e si rendono presenti. Egli, si può aggiun­gere forse con maggiore precisione, è lo Spirante che rende presente Gesù Cristo » (H. Schlier). La riflessione paolina sullo Spirito è particolar­mente ricca, ma non penetra nelle profondità del rapporto di questa persona divina col Padre e con il Figlio. Paolo si interessa soltanto al ruolo funzionale che Egli ha nella salvezza dell’uomo. L’Apostolo ha infatti una comprensione « economica » della Trinità, che si è rivelata come « Dio per noi » (Rm 8,31). Solo questo lo interessa, non le speculazioni filosofiche su Dio. Per lui, la prova suprema dell’amore del Padre per gli uomini, è la missione del Figlio: « Dio dà prova del suo amore verso di noi nel fatto che, mentre eravamo ancora peccatori, Cristo è morto per noi » (Rm 5,8).

GESU’ È IL « CRISTO CROCIFISSO »

La croce di Gesù Cristo si trova al centro della riflessione teologica paolina; e la croce indica la morte storica di Gesù di Nazareth. Paolo era rimasto sconvolto dalla rivelazione che quel Gesù, che morì sulla croce come un malfattore, era vivo accanto a Dio e che la sua morte da maledizione si era trasformata in benedizione, anzi fonte di ogni benedizione per i credenti in Lui. Per questo, nelle sue comuni­tà, Paolo ha preteso « di non sapere altro se non Gesù Cristo e questi crocifisso » (1 Cor 2,2Gal 3,1).
L’Apostolo insiste particolarmente sulla morte in croce di Gesù tanto che nell’inno della Lettera ai Filippesi, dopo aver detto che Cristo « si fece obbediente fino alla morte », precisa « e alla morte d i croce » (Fil 2,8).
Gesù, accettando proprio questa morte infamante, realizza la sua donazione totale al Padre e alla sua volontà. Solo nell’obbedienza e nella fedel­à a Dio, come s’esprime l’inno cristologico sopra citato, la sua morte diventa donazione salvifica per I’uomo. Essa acquista allora un significato ben preciso: è una morte « per noi » (cf Rm 5,6), per  amore nostro, « per i nostri peccati » (1 Cor 15,3).
Il morire di Gesù è, dunque, per Paolo, la massima espressione di un’esistenza che è fedele a Dio e agli uomini; ma è anche l’azione con cui Dio « consegna » il Figlio. Paolo dice esplicitamente che
« Dio non ha risparmiato il proprio Figlio, ma lo ha dato per noi tutti » (Rm 8,32).

La croce, cioè il Cristo crocifisso, può essere uno scandalo, un motivo d’inciampo a causa dell’umiliazione di Cristo, o una manifestazione di stoltezza, una follia, perché si attribuisce un valore universale ed assoluto ad un avvenimento contingente. Tuttavia per chi l’accoglie, « per noi, è potenza di Dio » (cf 1 Cor 1,18-25). È cioè una forza esplosiva di liberazione e di salvezza che raggiunge gli uomini per mezzo dell’annuncio del Vangelo. La predicazione, che Paolo definisce con l’espressione « la parola della croce » (1 Cor 1,18), si rivela infatti potente in quelli che si salvano. Parlando di croce, Paolo non pensa solo alla morte dolorosa e disonorante di Gesù, ma vede anche la salvezza e la gloria che passano attraverso di essa.
I due eventi, morte e resurrezione, non sono disgiunti, fatti a sé stanti, ma sono inscindibilmente connessi tanto che nell’esposizione paolina si sovrappongono quasi. Sono intesi come due aspetti dell’unico evento salvifico: il Crocifisso è il Risorto, nell’uno è sempre presente l’altro. C’è assoluta identità tra loro, si può dire che « sono le due facce di un’unica medaglia, il negativo e il positivo di una stessa fotografia » (R. Penna). E’, però, a partire dalla resurrezione che la morte di Gesù ha assunto un significato e una portata del tutto particolari; e per Paolo, è nell’incontro col Risorto che comprende la croce di Gesù e accetta di portarla nel proprio corpo.
La resurrezione dai morti di Gesù è vista poi da Paolo come un’iniziativa del Padre, è la sua risposta all’amore obbediente del Figlio. È opera della « potenza di Dio » (Col 2,12), dello splendore della sua potenza, che è la gloria del Padre, come afferma esplicitamente la Lettera ai Romani: « Cristo fu risuscitato dai morti per mezzo della gloria del Padre » (Rm 6,4).
Il Crocifisso, risuscitato per la potenza di Dio, ora vive e vive per sempre per Dio (cf Rm 6,10). E Lui stesso ha in sé la potenza del Padre, il potere di dare la vita, essendo divenuto, a partire dalla resurrezione, « spirito datore di vita » (1 Cor 15).

GESÙ È « IL SIGNORE »

Gesù Cristo, « che non cercò di piacere a se stesso » (Rm 15,3), ma si fece obbediente al Padre fino alla morte di croce, è da Lui risuscitato e « assunto nella gloria » (1 Tm 3,16). All’abbassarsi e all’autosvuotarsi del Figlio, risponde l’intervento potente del Padre con un’azione di innalzamento. « Per questo – prosegue l’inno della Lettera ai Filippesi – Dio l’ha esaltato e gli ha dato il nome che è al di sopra di ogni altro nome; perché nel nome di Gesù ogni ginocchio si pieghi nei cieli, sulla terra e sotto terra; e ogni lingua proclami che Gesù Cristo è il Signore, a gloria di Dio Padre » (Fil 2,9-11).
Il nome che Gesù riceve, insieme ad un ruolo e ad una dignità nuove, è quello di « Signore ». Questo titolo, Kyrios in greco, è il titolo per eccellenza di Gesù, in San Paolo. Esso ha un valore molto forte, perché nel cristianesimo primitivo, seguendo l’uso del giudaismo ellenizzante, era utilizzato per qualificare l’unico Dio d’Israele.
Il nome « Signore » rivela perciò l’identità profonda di Gesù, nella sua duplice relazione con Dio e con gli uomini. Per iniziativa gratuita di Dio, Gesù, l’uomo storico vissuto in totale fedeltà, è costituito in quella dignità che è propria di Dio. Per questo tutti gli esseri gli sono sottomessi e tutti i popoli l’acclamano in un atto di adorazione che è dovuto solo a Dio (cf Is 45,23).
In relazione ai credenti, Gesù ha ora un rapporto personale, sottolineato proprio dagli aggettivi « nostro » o « mio » associati all’appellativo di Signore. Essi gli appartengono totalmente, sia comunitariamente che individualmente, perché li ha riscattati col sacrificio di se stesso.
Il culmine, però, della signoria di Cristo è « la gloria di Dio Padre », ad essa è orientata tutta la vita e l’azione salvifica di Gesù. E la comunità, che vive in relazione profonda col suo Signore, scopre e celebra lei stessa la gloria di Dio (cf Rm 15, 7). Notiamo infine che all’identità di Gesù, riconosciuto come Signore, corrisponde il volto definitivo di Dio quale « Padre ».

« GESÙ » È IL VANGELO DI PAOLO

Scrivendo alla comunità di Roma, a cui è sconosciuto, Paolo presenta se stesso e « il Vangelo di Dio » al quale è stato consacrato. Si qualifica come « servo di Gesù Cristo » e « apostolo… per annunziare il vangelo » (Rm 1,1). Per questo è stato eletto e chiamato da Dio come gli antichi profeti (cf ( Gal 1,15). Essere inviato «per il Vangelo » è dunque la sua missione, che egli difende e sostiene strenuamente. «Cristo infatti non mi ha mandato a battezzare, ma a predicare il vangelo »  (1 Cor 1,17).
Consapevole della grazia speciale che gli è stata concessa con la missione dell’annuncio, Paolo definisce la sua predicazione « il mio Vangelo » o « il nostro Vangelo », intendendo con ciò il Vangelo che egli predica (cf Gal 1,11). Altre volte usa l’espressione « il Vangelo di Cristo » o « il Vangelo del Signore nostro Gesù » indicando così, essenzialmen­le, il contenuto del suo messaggio: Gesù Cristo.
Ciò che predica, proclama, annuncia, insegna ( sono i verbi che lui stesso usa) è sempre « Gesù Cristo, il Signore », come scrive ai Corinzi (cf 2Cor 4,5). L’essenza del suo messaggio apostolico é, dunque, l’evento « Gesù Cristo », come è presentato dal Kerygma primitivo.
All’inizio della Lettera ai Romani così definisce il Vangelo di Dio »: è « il Figlio suo, nato dalla stirpe di Davide secondo la carne, costituito Figlio di Dio con potenza secondo lo Spirito di santificazione mediante la resurrezione dai morti, Gesù Cristo nostro Signore » (Rm 1,3-4). E’ una sintesi cristologica in cui Gesù è presentato come il Figlio di Dio, divenuto uomo con i limiti e le debolezze della natura umana, costituito in forza della resurrezione « Figlio di Dio », cioè Messia e Salvatore in senso pieno, per la potenza dello Spirito. Il nuovo titolo che riceve – ma era Messia anche prima della glorificazione, solo che ora lo è in senso attivo e dinamico – è funzionale alla salvezza da realizzare, la « santificazione » di tutti gli uomini senza distinzione, « mediante l’obbedienza della fede » (Rm 1,5).

Nella I Lettera ai Corinzi così presenta il « credo » annunciato da lui e dagli apostoli: « Vi rendo noto, fratelli, il vangelo che vi ho annunziato e che voi avete ricevuto, nel quale restate saldi, e dal quale anche ricevete la salvezza, se lo mantenete in quella forma in cui ve l’ho annunziato. Altrimenti, avreste creduto invano! Vi ho trasmesso dunque, anzitutto quello che anch’io ho ricevuto: che cioè Cristo morì per i nostri peccati secondo le Scritture, fu sepolto ed è risuscitato il terzo giorno secondo le Scritture, e che apparve a Cefa e quindi ai Dodici… » (1 Cor 15,1-5 ss). Dopo aver qualificato la sua predicazione come « un Vangelo », dal quale si riceve la salvezza se vi si aderisce in modo integrale, l’Apostolo ne presenta il contenuto con la più anti­ca formulazione Kerygmatica dell’annuncio della morte e della resurrezione di Gesù.
Il Vangelo è unico, non ne esistono altri diversi da quello predicato da Paolo (cf Gal 1,6-8). Il suo è l’autentico Vangelo di Gesù Cristo, che proviene da Dio ed è « Parola di Dio » (1 Ts 2,13). Il Vangelo, infatti, è di Dio perché è suo dono, affidato agli apostoli che devono rendere conto di esso davanti a Lui. Inoltre è il mezzo che il Padre ha scelto per rivolgere agli uomini il suo appello di salvezza. Ed è « il Vangelo di Cristo », sia perché come abbiamo già detto, il contenuto del messaggio è la stessa persona di Gesù, sia per il fatto che nel Vangelo predicato dall’Apostolo è Gesù stesso che annunzia e agisce.
« Dio e Cristo parlano nella, mediante e sotto la parola di un uomo, dell’Apostolo… Questo dato sorprendente trova espressione esplicita in 1Ts 2,13 dove l’Apostolo dichiara: ‘Noi ringraziamo Dio continuamente perché, avendo ricevuto da noi la parola divina della predicazione, l’avete accolta non quale parola di uomini, ma, come è veramente, quale parola di Dio, che opera in voi che credete » (H. Schlier).
Il Vangelo, infatti, è una forza salvifica che non solo annuncia l’evento redentivo, ma lo fa penetrare nella vita degli uomini in quanto è « potenza di Dio per la salvezza di chiunque crede » (Rm 1, 16). « È in esso che si rivela la giustizia di Dio » (Rm 1,17), cioè la sua opera di redenzione, per­ché nell’annuncio del Vangelo si attua il disegno salvifico del Padre.

Il Vangelo è detto « la potenza di Dio », ma anche Gesù Cristo è chiamato « la potenza di Dio » (cf 1 Cor 1,24). Ciò non deve sorprenderci. Il Vangelo è Gesù Cristo ed entrambi portano all’uomo il dono di salvezza del Padre.
In quanto « potenza di Dio », il Vangelo non può essere proclamato senza l’assistenza dello Spirito di Dio. Ai Tessalonicesi, Paolo può così scrivere: « Il nostro vangelo, infatti, non si è diffuso fra voi soltanto per mezzo della parola, ma anche con potenza e con Spirito Santo e con profonda convinzione » (1 Ts 1,5). Nell’annuncio apostolico lo Spirito stesso agisce e opera e, parlando dell’efficacia del Vangelo, si parla dell’efficacia dello Spirito.
L’appello di Dio alla salvezza, che è il Vangelo, è rivolto a tutti gli uomini senza distinzione, « del   Giudeo prima e poi del Greco » (Rm 1,16). E nella stessa lettera dirà che « non c’è distinzione tra Giudeo e Greco, dato che è il Signore di tutti, ricco verso tutti quelli che l’invocano » (Rm 10,12). Il Vangelo, che produce la fede, compie così la promessa fatta ad Abramo (cf Gal 3,8-9).Ultimo aspetto del Vangelo di Paolo che vorremmo evidenziare è il suo essere concepito come « mistero ».

Concludendo la Lettera ai Romani, Paolo rende gloria a Dio con queste parole: « A colui che ha il potere di confermarvi secondo il vangelo che io annunzio e il messaggio di Gesù Cristo, secondo la rivelazione del mistero taciuto per secoli eterni, ma rivelato ora e annunziato mediante le scritture profetiche, per ordine dell’eterno Dio, a tutte le genti perché obbediscano alla fede, a Dio che solo è sapiente, per mezzo di Gesù Cristo, la gloria nei secoli dei secoli. Amen. » (Rm 16,25-27). In questi versetti egli dà le linee essenziali della storia della salvezza. La salvezza parte da Dio e ritorna a Dio, si attua per mezzo dell’annuncio del Vangelo, è stata rivelata dalle Scritture, si sviluppa secondo il disegno misterioso di Dio ed è destinata a tutte le genti.
Il Vangelo che Paolo annuncia è il messaggio di Cristo, il quale rivela e realizza, anzi è, « il mistero di Dio » (Col 2,2). Ma il Vangelo stesso è chiamato il « mistero del vangelo » (Ef 6,19), perché anch’esso rivela e attua, in ogni credente che l’accoglie con fede, il disegno salvifico di Dio, compiuto in Cristo.
Il termine mistero suggerisce, poi, un’idea di rivelazione e di nascondimento: Dio si manifesta, ma non si lascia imprigionare: è sempre più grande dell’evento o della parola con cui si è comunicato all’uomo. Così il Vangelo, concepito come mistero, è sì comunicato agli uomini con mezzi umani, ma lo si apprende solo con la fede e, pur essendo rivelato, mantiene in sé l’oscurità della « sapienza divina » (1 Cor 2,7), che non è mai completamente svelata all’uomo.

COME L’UOMO CONOSCE GESÙ
DIVENENDO « CON LUI UN SOLO SPIRITO »

Gesù, condannato alla croce per la sua perfetta fedeltà a Dio, diventa sorgente di vita per tutti gli uomini. La salvezza, che è frutto della sua morte, è espressa da Paolo con molti termini che tentano di esprimere il mistero dell’atto redentivo, senza esaurirlo però. È giustificazione, in quanto nella morte del Figlio, il Giusto, il peccato è condannato e l’uomo nasce a una nuova vita. È liberazione dalla schiavitù del peccato per essere trasformati a immagine del liberatore. È riconciliazione, essere cioè in pace, con Dio (cf Rm 5,1), in un nuovo rapporto d’amore e di comunione con lui fino all’essere assimilati e trasformati in Cristo Gesù. Ma l’uomo, come si appropria di questo bene supremo? È per mezzo della fede, risponde Paolo. « Se confesserai con la tua bocca che Gesù è il Signore, e crederai con il tuo cuore che Dio lo ha risuscitato dai morti, sarai salvo » (Rm 10,9).
La fede si riferisce al Vangelo, perché è grazie al Vangelo che si incontra l’azione salvifica di Dio in Gesù Cristo. Essa è, dunque, la risposta dell’uomo alla chiamata di Dio, al suo appello espresso nella « parola di verità » che è « il vangelo della salvezza » (Ef 1,35). Il credere nasce, perciò, dall’ascolto che è l’ultimo anello di una catena di eventi che Paolo espone ampiamente in Rm 10,14-17: « Come potranno invocarlo (il nome del Signore) senza aver prima creduto in. lui? E come potranno credere, senza averne sentito parlare? E come potranno sentirne parlare, senza uno che lo annunzi? E come lo annunzieranno senza essere prima inviati? Come sta scritto: Quanto son belli i piedi di coloro che recano un lieto annunzio di bene! Ma non tutti hanno obbedito al vangelo. Lo dice Isaia: Signore, chi ha creduto alla nostra predicazione? La fede dipende dunque dalla predicazione e la predicazione a sua volta si attua per la parola di Cristo ». All’inizio c’è l’evento di Cristo, al quale si deve credere, ma per arrivare alla fede ci deve essere l’annuncio; questo presuppone l’evangelizzatore che proclama la Parola di Dio e, a sua volta, l’evangelizzatore deve essere inviato con la specifica missione dell’annuncio.

L’ascolto, che è l’inizio della fede, si concretizza poi nell’obbedienza. È significativo che Paolo, per precisare meglio che cos’è la fede, la chiami « l’obbedienza della fede » (Rm 5,1) o semplicemente « obbedienza » (Rm 15,18). E per il fatto che la fede è « obbedienza e accettazione del vangelo di Cristo » (2 Cor 9,13), essa è « obbedienza al Cristo » (2 Cor 10,5). Non è dunque una semplice adesione intellettuale ad una verità rivelata, ma è un aprirsi dell’uomo a quanto gli è proposto nel messaggio evangelico, un « fidarsi » di quanto ha ascoltato ed un « affidarsi » ad esso, culminando in un impegno vitale e personale di tutto l’uomo per Gesù Cristo.
In quanto obbedienza e sottomissione, la fede è rinuncia a qualsiasi forma di « giustizia propria », con cui l’uomo crede di potersi salvare, ed è distac­co da ogni tipo di sicurezza e di fiducia in se stesso. Essa è poi dono di Dio, pur richiedendo la libe­ra decisione del credente. « Per grazia, infatti, siete stati salvati mediante la fede; e ciò non viene da voi, ma è dono di Dio » (Ef 2,8).
Questa risposta dell’uomo all’appello divino culmina nel battesimo, che ne è il sacramento. Paolo non la separa mai da esso; egli suppone sempre che la professione di fede sia coronata col ricevere il battesimo (cf Gal 3,26-27). Questo sacramento unisce il credente alla morte, alla sepoltura e alla resurrezione di Gesù Cristo e lo rende partecipe della sua vita di risorto (cf Rm 6,3 ss). È una radicale trasformazione della propria esistenza: in Gesù il battezzato è morto al peccato e quindi libero da esso per « camminare in una vita nuova » (Rm 6,4).
Per Paolo ogni « vivificazione » avviene partendo da una morte, anche nel caso della germinazione delle piante (cf 1 Cor 15,36-38). Lo stesso vale per il credente che, unito alla morte di Cristo, diventa vivente con lui. Ma « a differenza di Gesù che è morto una volta per sempre e quindi è pienamente libero, la mia morte battesimale è morte soltanto in Gesù e non ancora in me stesso: dovrà diventare attuale nel tessuto concreto della mia esistenza ordinaria » (X. Léon-Dufour). Perciò l’unione alla morte del Signore provoca l’imperativo di liberare noi stessi e « vivere per Dio in Gesù Cristo » (Rm 6,11). Allora, scrive Paolo ai Romani, « liberati dal peccato e fatti servi per Dio, voi raccogliete il frutto che vi porta alla santificazione e come destino avete la vita eterna » (Rm 6,22).
La radicale novità prodotta nel credente dalla fede e dal battesimo è espressa da Paolo con l’essere « una creatura nuova ». « Quindi se uno è in Cristo, è una creatura nuova; le cose vecchie sono passate, ecco, ne sono nate di nuove » (2 Cor 5,17). Investita dalla grazia di Dio, la vita del battezzato è ormai una vita « in Cristo Gesù » (1 Cor 1, 3 0 ) e « nello Spirito » (1 Cor 6,11). La « vita nuova » non indica solo un rinnovamento morale e spirituale, ma un radicale cambiamento che tocca le radici dell’essere: il credente, associato a Cristo, riceve « un’affinità ontologica » con lui, è « un’unica pianta » con lui, secondo il significato etimologico della parola greca che esprime l’unione col Cristo (cf Rm 6,5). Il risultato di quest’unione è l’appartenenza del cristiano al suo « Signore Gesù » che l’ha redento.
La creatura nuova, « nata dal costato di Cristo crocifisso » (S. Cipriani), è inabitata dallo Spirito che è di Dio e di Cristo. Il possesso dello Spirito è l’unica condizione per appartenere a Gesù: « Se qualcuno non ha lo Spirito di Cristo, non gli appartiene » (Rm 8,9). Infatti, per la resurrezione, il Signore ‘e divenuto uno « spirito datore di vita » (1 Cor 15,45) ed è il suo Spirito che, inabitando in noi, ci comunica la sua vita divina. Vita che per ora è solo allo stadio iniziale e che si compirà, un  giorno, con la resurrezione dei corpi, quando parteciperemo in pieno alla vita di Cristo risorto.
« E se Cristo è in voi, il vostro corpo è morto a causa del peccato, ma lo spirito è vita a causa della giustificazione. E se lo Spirito di colui che ha risuscitato Gesù dai morti abita in voi, colui che ha risuscitato Cristo dai morti darà la vita anche ai vostri corpi mortali per mezzo del suo Spirito che abita in voi » (Rm 8,10-11).
Avendo in noi lo Spirito di Dio, per mezzo di Gesù, siamo divenuti figli adottivi del Padre. E co­me Gesù « non cercò di piacere a se stesso » (Rm 15,3), ma visse obbediente al Padre, così noi, diventati figli nel Figlio, dobbiamo cercare di piacere a Dio (cf Rm 8,5-6), assumendo « gli stessi sentimenti che furono in Cristo Gesù » (Fil 2,5).
Per esprimere l’intima unione di Gesù col credente, unione che è la fonte del nuovo rapporto col Padre e con lo Spirito, Paolo usa l’espressione del « corpo di Cristo ». Essa ha due sensi: è un corpo « unico » di cui siamo membra, identificato poi con la Chiesa, ed è il suo corpo « eucaristico ». L’immagine del corpo è veramente efficace per cogliere l’unione profonda e reale col Signore Gesù.
Il corpo e il sangue eucaristici sono il sacramento della comunione con Cristo e, mediante lui, con tutti i redenti che in Cristo formano « un solo corpo ». « E il pane che noi spezziamo, – scrive Paolo alla comunità di Corinto in cui ci sono delle divisioni – non è forse comunione con il corpo di Cristo? Poiché c’è un solo pane, noi, pur essendo molti, siamo un corpo solo: tutti infatti partecipiamo dell’unico pane » (1 Cor 10,16-17).
Comunicando al Corpo fisico di Gesù, siamo assorbiti in lui, assimilati a lui, divenendo membra del suo corpo e sua proprietà. Ma siamo anche associati ai fratelli: ogni nostro contatto con Cristo ci pone in contatto con gli altri redenti. Così S. Giovanni Damasceno esprime questa duplice unione: « L’Eucarestia si chiama ed è veramente comunione, poiché per essa noi veniamo uniti a Cristo e partecipiamo alla sua carne e alla sua divinità; essa è comunione anche perché, per mezzo suo, siamo uniti gli uni agli altri. Appunto perché partecipiamo a un solo pane, diventiamo tutti un solo corpo di Cristo, un solo sangue, e membri gli uni degli altri essendo stati fatti concorporei con Cristo ».

CONCLUSIONE

Col battesimo, non solo il credente è divenuto « una nuova creatura », ma Cristo stesso vive in lui (cf Gal 2,20). Per questo tutta la sua condotta di vita deve essere conforme alla realtà prodotta in lui dalla grazia battesimale.
Numerose sono le esortazioni dell’Apostolo alle sue comunità perché diventino ciò che sono già, scoprendo il dono di Dio ricevuto in Gesù e vivendo di conseguenza.
« Voi tutti siete figli della luce e figli del giorno… Non dormiamo dunque come gli altri, ma restiamo svegli e siamo sobrii » (1 Ts 5,5-6). E ai Romani: « Non conformatevi alla mentalità di questo secolo, ma trasformatevi rinnovando la vostra mente, per poter discernere la volontà di Dio, ciò che è buono, a lui gradito e perfetto » (Rm 12,2). Queste esigenze, cha sono proprie di ogni battezzato, riguardano particolarmente noi, che abbiamo scelto di consacrarci in modo speciale al Signore, rispondendo alla sua chiamata divina. Infatti, seguendo Cristo casto, povero e obbediente, i consacrati « animati dalla carità che lo Spirito Santo infonde nei loro cuori (cf Rm 5,5) sempre più vivono per Cristo e per il suo Corpo che è la Chiesa (cf Col 1,24) » (PC, 1). Così si esprime il Concilio Vaticano II, il quale usa il verbo al presente per indicare la nostra profonda realtà che è vivere per Cristo e per la Chiesa. Non è solo un invito dunque! L’amore esclusivo per il Signore Gesù deve essere una realtà concreta e visibile nella nostra vita quotidiana, in un crescendo continuo.
La nostra specifica vocazione ha, poi, le sue radici nel battesimo, come ci insegna lo stesso documento conciliare: « Tutta la loro vita, infatti, è posta al servizio di Dio, e ciò costituisce una speciale consacrazione che ha le sue profonde radici nella consacrazione battesimale e l’esprime con maggior pienezza » (PC, 5).
Di conseguenza, se ogni battezzato è chiamato a vivere con coerenza la profonda novità di vita prodotta in lui dalla grazia battesimale, noi consacrate saremo fedeli al nostro battesimo se risponderemo in pienezza alle esigenze della nostra specifica vocazione. Infatti, è tramite essa che per noi si realizza la consacrazione battesimale.
L’esempio e l’insegnamento dell’Apostolo Paolo ci offrono poi un secondo ammaestramento.
Paolo, chiamato ad essere « ministro del vangelo » (cf Ef 3,7), è fedele alla sua vocazione e fiero del suo essere « apostolo » e « servo di Cristo ». La sua fedeltà gli costò però continue persecuzioni sia all’esterno che all’interno della comunità cristiana, ma l’amore del Signore era per lui uno stimolo che lo spingeva a non risparmiarsi fatiche e sofferenze, pur di proclamare il Vangelo e portare tutti gli uomini a « vivere per colui che è morto e risuscitato per loro » (cf 2 Cor 5,14-15).
La Famiglia Paolina, che ha come padre e fondatore San Paolo (AD, 2), ha ricevuto da Dio la grazia della stessa missione dell’Apostolo: diffon­dere il Vangelo secondo l’invito di Gesù: « Andate, predicate, insegnate » (cf AD, 81-82: 136).
Noi Annunziatine, che apparteniamo alla Famiglia Paolina, condividiamo con essa lo spirito e l’apostolato (cf Statuto, art. 3). Così, come ogni paolino, abbiamo un unico apostolato: « far conoscere Gesù Cristo » (cf AD, 64) e farlo con lo spirito di San Paolo, con la sua apertura universale, con il suo coraggio, non dovuto ad audacia umana, ma alla fiducia in Dio e nel suo aiuto. Proprio per questo San Paolo offre a noi l’opportunità di verificare, sul suo esempio, la qualità del nostro amore al Signore e della nostra fedeltà alla vocazione paolina.
Con Paolo, vorremmo poter dire a conclusione della nostra esistenza vissuta con Gesù e per Gesù: « Ho servito il Signore con tutta umiltà, tra le lacrime… Ho portato a termine la mia corsa e il servizio che mi fu affidato dal Signore Gesù, di rendere testimonianza al messaggio della grazia di Dio » (At 20,19-24).

(Questa Relazione si trova nel libro : “Chiamate per l’Annuncio
assieme ad altre 12 che vanno dal 1982 al 1987)